Kenya

I primi missionari della Comunità Papa Giovanni XXIII sono arrivati a Soweto, uno degli slum più poveri di Nairobi, nel 1997. Dopo più di 20 anni la situazione non è migliorata: la baraccopoli si è estesa fino a diventare tutt’uno con quelle delle zone limitrofe; i suoi abitanti vivono miseramente, in condizioni igienico-sanitarie precarie, senza cibo, medicine, risorse sufficienti a condurre un’esistenza dignitosa. Noi siamo ancora lì e cerchiamo di dare risposta ai bisogni di chi bussa alla nostra porta. Simone vive al G9, la nostra casa di accoglienza per bambini e ragazzi di strada, e durante l’emergenza sanitaria legata al coronavirus, con le scuole chiuse, è al completo. Le giornate sono intense, ma Simone trova comunque il tempo per proseguire l’attività di Unità di Strada. Ecco la sua testimonianza:

“I ragazzi sono tutti a casa ormai da qualche mese e io sono l’unico a vivere al G9 in modo residenziale. Le donne che solitamente vengono ogni giorno a lavare i panni e cucinare non possono più farlo, per ragioni di sicurezza ma anche perché devono prendersi cura dei loro figli. Ben invece, che da sempre mi aiuta, continua ad essere presente durante il giorno.

Siamo 20 e c’è molto da fare, non è difficile occupare il tempo!

C’è la routine: le pulizie, il bucato, la preparazione dei pasti, la cura dell’orto, dove coltiviamo mais, pomodori, cipolle, verdure a foglia. E ovviamente lo studio: il Governo ha organizzato il proseguimento delle lezioni scolastiche in TV, ma noi non ce l’abbiamo. Io mantengo i contatti con gli insegnanti grazie ai gruppi Whatsapp di classe, tramite cui ricevo le indicazioni per proseguire autonomamente lo studio.

Certo non è facile seguire così tanti “figli”, ma i ragazzi più grandi aiutano i più piccoli e tutti riescono a stare al passo con il programma.

È un momento positivo per questa nostra grande famiglia. Non succede mai di avere l’occasione di passare così tanto tempo tutti insieme: solitamente i ragazzi tornano da scuola nel tardo pomeriggio, c’è giusto il tempo per giocare un po’, mangiare e fare i compiti dopo cena. Durante le vacanze invece chi può raggiunge la famiglia, tappa fondamentale del percorso di ricostruzione dei legami in vista di un futuro ritorno dei bambini a casa.

Abbiamo impiegato bene questo tempo, abbiamo approfondito il rapporto tra di noi ed è così cresciuto l’attaccamento, il sentimento di essere una famiglia.

Certo ora c’è un po’ di insofferenza, i ragazzi sono stanchi di stare sempre dentro al perimetro del G9 e anche io a dir la verità… quando esco a far la spesa li porto con me, almeno vedono qualcosa di diverso. Ovviamente i loro coetanei sono tutti in giro, ancora più di prima ora che non c’è nemmeno la scuola.

Passato il momento iniziale di confusione e paura, io e Ben abbiamo ripreso l’Unità di Strada. Due volte la settimana andiamo nello slum di Githurai dove i bambini e ragazzi di strada sono se possibile ancora più numerosi. Li portiamo a mangiare “street food”, ci sediamo con loro e aspettiamo che ci diano aggiornamenti. Portiamo all’ospedale chi non sta bene o è ferito; andiamo a trovare le famiglie di chi è disposto ad accompagnarci, così da capire la situazione e i bisogni.

In Kenya non è stato deciso il lockdown, perché solo i pochi benestanti potrebbero permettersi di rispettarlo.

Qui non esiste in concetto di “stare in casa”: le baracche sono luoghi bui e angusti, ci si sta solo a dormire, e per sopravvivere la gente ha bisogno di uscire, vendere, fare lavori alla giornata, pagati a cottimo. Però a Nairobi è stato stabilito il coprifuoco dalle 19 fino all’alba. Ciò significa che non è possibile dormire per strada, a meno di correre il rischio di essere arrestati o picchiati dalla polizia. Abbiamo deciso allora, in collaborazione con Kofup, un’associazione inglese che come noi si preoccupa della problematica dei bambini e ragazzi di strada, di affittare per loro cinque stanze in una pensione, di cui una riservata alle ragazze, così che possano avere un posto dove dormire finché non finisce l’emergenza sanitaria.

Se potessi li porterei a casa con me, ma non posso semplicemente prenderli per mano e salire con loro sul “matatu”, sull’autobus che porta verso Soweto.

Il G9 è una famiglia, se fossimo più di così si perderebbe questa dimensione fondamentale. E poi sono loro che devono chiederlo, che devono essere convinti di lasciarsi alle spalle la vita di strada, di darsi una possibilità. Per quanto possa sembrare assurdo, non è una scelta così facile”.

Migliaia di persone sole e fragili, per sopravvivere, si affidano alla Comunità.
Senza di noi non hanno alternative.
Sostienici in questo momento.

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